“È l’immaginazione al potere di Herbert Marcuse, fatta di visioni salvifiche che supera l’afonia di una ragione e di un linguaggio che non è più in grado di trascendere la realtà …”, si era scritto nella presentazione del concerto di Peter Brötzmann dell’8 maggio, partendo dal sessantottino e seminale disco “Machine Gun” del “Peter Brötzmann Octet”.
E così, nello scenario splendido ed evocativo della seicentesca chiesa di San Giuseppe delle Scalze a Pontecorvo, Brötzmann si è vestito della duplice e ieratica funzione di sacerdote e di coro pagano, risaldando la terra e la sua materialità alla trascendente (appunto) spiritualità.
Accade, infatti, che per strane alchimie o per il semplice volere di dèi capricciosi, tempi, luoghi, uomini e accadimenti si incontrano in un dato momento, incatenando attimi ad attimi e al valore di ciò che è definitivo.
E l’ascoltare Brötzmann in solo, in un’antica chiesa ferita dal tempo ingeneroso, depredata dalla distrazione e scempio dell’uomo, punita dagli eventi della natura, ha, per una sera, raccontato agli occhi e alle orecchie, alla mente e all’anima, il poliedrico aspetto che lega, nel rapporto tra loro, la superstizione, la magia, la religione e la scienza (per dirla alla James Frazer).
Il musicista tedesco, al contempo forte e maturo dell’età, ha suonato con perfetto equilibrio, dando fiato al suo sassofono tenore, al soprillo e al tarogato, mostrando di aver raggiunto un punto di esatta congiunzione tra “l’esuberanza sperimentale” della giovinezza e la riflessiva e pacata saggezza della “vecchiaia”.
Per ogni improvvisazione, di cui si è avuta la percezione di un’esecuzione in termini temporali discendenti, Brötzmann ha alternato, nei colloqui con se stesso, virtuosismi, suoni, cacofonie ad atmosfere rarefatte, fasi meditative, accenni di temi e melodie, per un rosario di note che in preghiera ha sciolto i suoi misteri d’avanguardia e di jazz, ridando così voce al cristo uomo orfano della sua croce schiodata dall’altare.
Si è, quindi, fugato il possibile equivoco, che spesso nasce per tali eventi, di quali siano i confini tra il soggettivo e l’oggettivo nel gusto della sperimentazione, laddove gli eccessi tracimano argini che difficilmente riescono a contenere nello stesso flusso sonoro tanto il senso quanto il non-senso.
La capacità, poi, di Brötzmann di estraniarsi nella catarsi della propria musica, si è palesata nella sua immobilità fisica e ostinazione musicale anche quando il calore di un faretto ha surriscaldato una tavola di legno ha generato del fumo, con conseguente alterazione dello stato emotivo del pubblico e il doveroso ricorso – per una dovuta sicurezza – all’utilizzo di estintori che hanno fatto da “contrappunto industriale” ai fiati.
Un plauso va poi riservato al bel dialogo nel preludio dei violoncellisti napoletani Chiara Mallozzi e Davide Maria Viola, capaci di creare una dialettica musicale carica di tensioni e di risoluzioni, in cui la diversa sensibilità dei due musicisti è apparsa come componente ben distinta e caratterizzante nel saper esprimere l’individualità in funzione della coralità.
Mentre la Mazzolli si è riservata tessiture più ragionate con apici nel cinguettio di note alte e negli splendidi bordoni sui bassi, Viola ha mostrato il lato più “istintivo” del violoncello.
L’evento, che è stato promosso da Non Sempre Nuoce dei musicisti e compositori Antonio Raia e Renato Fiorito con il supporto di Sergio Naddei e in collaborazione con il Coordinamento Le Scalze, conferma la crescente sensibilità organizzativa di una Napoli che si sta confermando sempre più all’avanguardia in ambito musicale (da Evan Parker, passando per Alva Noto, Fred Frith, Teho Teardo, Terry Riley … per citarne alcuni), ma ancora, purtroppo, vedova di un pubblico (soprattutto di musicisti) capace di comprendere l’importanza di vivere e di supportare tali iniziative.
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autore: Marco Sica
foto di: Sabrina Cirillo